domenica 17 dicembre 2017

Fate di me ciò che io voglio


In un clima di euforia mista a commozione è stato accolto il testo di legge sul biotestamento che con decenni di ritardo regola il fine vita ossia quel lasso di tempo che separa un individuo dal termine della sua esistenza. Quando invece di essere bruscamente sollevato dal dubbio se continuare a vivere o meno grazie ad una morte improvvisa, la sua presenza su questa Terra viene prolungata fino a data da destinarsi attraverso il supporto di cure mediche. 

Insomma il fatto di essere sopravvissuto ad un incidente, ad una malattia invalidante o a qualsiasi altro grave accadimento sulla salute fisica peserà come un macigno sulla vita futura di questo essere. Il quale a volte o anche spesso può decidere che in quelle condizioni non vuole continuare a vivere e chiede il benestare della società che lo circonda, della comunità della quale fino a quel momento è stato un individuo attivo e magari anche prezioso. 

Sempre che le sue capacità mentali glielo permettano, sia in grado di intendere o di volere, altrimenti sarà un’altra persona a lui vicina a dover decidere cosa è giusto. Cosa tra l’altro già difficile in condizioni di maggior leggerezza, ancor più quando c’è da scegliere se qualcuno che non siamo noi debba annullare la sua presenza che in quel caso sarebbe solo fisica. 

In realtà quanto è stato legiferato riguarda il consenso o il rifiuto in merito a determinati trattamenti sanitari tra cui la nutrizione o idratazione artificiale il che equivale certamente ad andare incontro alla fine. Della buona morte, l’eutanasia che tanta divisione nel dibattito politico e pubblico ha creato, non si è parlato in maniera specifica. 

Il procurare intenzionalmente la morte ad una persona la cui qualità di vita è seriamente compromessa da una malattia o condizione psichica è un atto evidentemente troppo audace e prematuro in un paese che ci ha messo decenni per arrivare anche solo a parlare di scelta individuale sulle cure mediche. 

Influenze politiche e religiose non hanno permesso un libero dibattimento sul tema del fine vita, tanto che al momento in cui si sono verificati fatti privati che sono diventati pubblici come quello di Eluana Englaro o Piergiorgio Welby argomenti che prima erano dei tabù sono stati necessariamente sviscerati per cercare di capire quale fosse la decisione migliore. Che probabilmente non è scritta da nessuna parte, perché siamo tutti individui diversi con capacità di reagire alle situazioni del tutto differenti, potenzialità disuguali, ma non solo. 

Non tutti abbiamo una fede, ci sono individui che non hanno un credo religioso, quindi per loro non c’è un dio che ha donato loro la vita. Conseguentemente possono scegliere di non soffrire ulteriormente e tornare ad essere parte della terra senza dover subire alcuna punizione. Chi ha ragione? Tutti, sia il credente che l’ateo, ad ognuno la conclusione che reputa più idonea per la sua permanenza tra noi vivi. Sempre che questa possibilità di decidere gli o le venga concessa.

E come la mettiamo quando la capacità di intendere della persona è intatta e quindi si tratta di un individuo che potenzialmente potrebbe ancora dare molto alla comunità? Magari il loro grado di sofferenza è tale per cui non sono capaci di uscire fuori dalla terribile condizione di menomazione fisica in cui la malattia o l’evento traumatico li ha condotti, nonostante le cure psicologiche.

Anche in questo caso credo che nessun altro possa arrogarsi il diritto di decidere che quella persona debba continuare a vivere in quello stato di estrema sofferenza, è la nostra natura umana che ce lo vieta. 

Il mio pensiero va al grandissimo scienziato Stephen Hawking, il quale nonostante la malattia degenerativa neuronale che lo ha colpito in giovane età, ha enunciato teorie, insegnato modelli matematici e studiato moltissimo sui buchi neri, un’eredità preziosissima che lascia ad altri scienziati. 

Non ancora però, perché nonostante le gravi menomazioni fisiche che lo costringono su una sedia a rotelle ultrasofisticata sulla quale comunica attraverso un computer, continua ad essere un membro indispensabile alla comunità internazionale, riuscendo anche ad ironizzare sulla sua condizione. 

Sono seriamente onorata come appartante a questa comunità che non abbia mai pensato di interrompere la sua esistenza, ne avrebbe avuto motivo. Saremmo veramente diventati tutti più poveri. 

Capisco anche che un cervello come il suo è quasi fuori la norma, però lui ci riporta con i piedi per terra e ci ricorda una grande verità, forse se ci riflettiamo un po’ arriviamo alla conclusione che ci sono molti vivi e vegeti che hanno deciso di morire da tempo con il loro immobilismo culturale, di azione, di pensiero, in poche parole hanno scelto di non essere, ma solo di esistere.

« Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi... Per quanto difficile possa essere la vita, c'è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire. » Stephen Hawking

domenica 10 dicembre 2017

Più libri, più liberi, più ricchi


La mia prima fiera del libro come autrice, dopo l’uscita di Quando le foglie scadono e l’esperienza è stata travolgente esattamente come la folla che invadeva La Nuvola. Il nuovo palazzo dei congressi di Roma architettato dalla star delle moderne costruzioni Massimiliano Fuksas ha aperto i suoi enormi ingressi ad una moltitudine di persone curiose disposte lungo una chilometrica fila. 

Per la prima volta non ero una semplice spettatrice alla ricerca di un titolo accattivante o di un classico da regalare a chi non ha voglia di sperimentare un nuovo autore, questa volta c’era anche la mia opera. Desiderosa di essere giudicata, criticata, messa alla prova da chi non ha la minima idea di chi tu sia. 

Ho incontrato molti altri autori, esordienti e veterani, che non attendevano altro che qualcuno si fermasse allo stand e desse anche un’occhiata furtiva al loro libro, per poter poi convincerli ad acquistare il prodotto. Perché alla fine un libro si riduce a questo e quanto ci può essere di affascinante ed emozionante nella sua stesura, si perde nelle strategie di marketing e nei conti dei numeri di copie vendute. 

In realtà l’autore ha sempre delle aspirazioni che spera di realizzare quando decide di scrivere una storia, diventare famoso può essere la più banale. Tutti gli scrittori che ho incontrato ne avevano almeno una, la voglia di dichiarare un proprio punto di vista su un determinato argomento, quella di affermare sé stessi, o semplicemente esprimere un’innata passione con tutti i vantaggi che comporta sulla salute psicofisica. 

Di certo la volontà comune è quella di riuscire a divulgare il più possibile il frutto di un lavoro magari di anni, la speranza è che il pubblico lo apprezzi. Se dietro questo bisogno di riscontro del pubblico, ci sia un inconfessato narcisismo è un dubbio lecito. 

Gli artisti mostrano sempre un qualcosa di sé stessi e si aspettano un giudizio positivo da parte della collettività che li giudica. In ogni caso nulla di più utile in una società in cui vi è così necessità di evolvere verso altri gradi di civiltà. 

Quella italiana in particolare ha bisogno che la cultura prenda il sopravvento rispetto ad uno stallo che ci fa stazionare nel limbo della barbarie intellettuale dal quale nessuno dimostra di  voler uscire. I numeri parlano chiaro, nel nostro paese si legge pochissimo e sembra che anche i pochi imperterriti rischiamo di perderli, relegati nella loro roccaforte di fede intellettuale in cui ancora si crede che la lettura abbia un fondamentale valore per la crescita della società. 

Se a qualche politico interessa saperlo, la crescita sarebbe anche economica, tanto per avere una motivazione a mandare ogni tanto uno spot istituzionale su quanto faccia bene leggere. Certo se il livello della politica raggiunge un grado di preparazione accettabile, allora il messaggio risulta certamente più credibile. E magari un giorno gli emarginati potrebbero essere quelli che oggi dedicano il tempo della lettura all’utilizzo di dispositivi informatici, anche se, è bene chiarirlo, l’uno non esclude l’altro. 

Infatti ci si dedica molto alla lettura in paesi come il Canada o in Norvegia dove la rivoluzione digitale è arrivata molto prima che dalle nostre parti, semplice volontà di non rimanere all’età della pietra o della ruota. 

A questo punto esaurite emozione e soddisfazione per il traguardo raggiunto, mentre osservo la copertina del libro nel mare magnum delle altre copertine, mi dò appuntamento con gli altri autori alla grande prova di Torino, un salone che non ho mai frequentato e dove c’è tutta l’editoria che conta. 

Spero di vedere altrettanta folla come quella che ha visitato la novità architettonica romana, realmente interessata ad immergersi nella generosa ed inebriante offerta editoriale piccola e grande. 
O forse erano tutti i lettori d’Italia messi insieme?

Nel dubbio non resta che augurare a tutti noi, autori artisti sognatori, che proviamo a scalfire con forza quest’immobilità culturale nella quale siamo impantanati, di riuscire a smuovere un granellino per uno. 

Può darsi che per la fine del secolo ce la faremo a risalire la china. 
Sempre che nel frattempo non siamo stati surclassati da tutti gli altri, ma proprio tutti.






domenica 26 novembre 2017

Se l'orso diventa vegano, non per moda


In occasione del Black Friday mi sono ritrovata al centro della città di Roma in un famoso negozio a più piani nel pieno di un vortice di compulsione consumistica pre-natalizia.  Mentre le facce fameliche si aggiravano intorno alle occasioni da non farsi scappare, io cercavo di consigliare al meglio chi stavo accompagnando. 

Non sono la persona più adatta per questo genere di suggerimento, in primo luogo perché non seguo la moda ed in genere mi vesto come mi va senza seguire un canone o un orientamento generale. Ed infatti quando ci siamo addentrati nel reparto donna, la persona che era con me sapeva che non avrei comprato niente, ma non aveva idea che l’unica cosa che mi sarebbe venuta in mente davanti ad un elegantissimo e morbidissimo maglione sarebbe stata la sua inadeguatezza rispetto al momento storico. 

“Mi piace, ma a cosa serviranno più? Con il riscaldamento globale potrebbe diventare fuori moda.”
Lui si gira e, con un’espressione di chi la pensa esattamente come te anche se non lo ammetterebbe mai, mi sorride: “Eh si, infatti!”

Probabilmente dentro a quello scintillante negozio molti altri avrebbero detto la stessa cosa, pur continuando ad acquistare quanto programmato nell’illusoria convinzione che possiamo proseguire con il nostro stile di vita senza preoccuparci del contesto.

I cambiamenti sono sempre difficili da mettere in atto, perché si tratta di rivedere principi e comportamenti, il nostro agire, in pratica noi stessi. Insomma un bel lavoro di aggiustamento che non nasce spontaneamente a meno che non ci sia una forte motivazione a dare il via. La difesa dell’ambiente non è evidentemente così forte, perlomeno non per tutti. 

Capita però che anche quando non abbiamo voglia di modificare nulla che ci riguardi, veniamo messi con le spalle al muro dal resto del mondo, da chi ci circonda, dalla vita, da tutto quello che prosegue nonostante la nostra volontà. Alla fine faremo anche noi parte del cambiamento, che piaccia o meno. E questa trasformazione potrebbe non essere proprio indolore. 

Una conferma l’ho avuta stamane, successivamente all’ubriacatura di luci e specchietti attorno ai pesanti e caldi capi invernali in pre-saldo, scorrendo gli articoli del National Geographic.  L’articolo in questione riguarda il triste declino degli orsi polari in una città canadese che affaccia sulla Baia di Hudson ed esordisce con l’amara constatazione sull’aumento delle temperature che avrebbe fatto diminuire il periodo di congelamento della Baia e quindi la presenza degli orsi. 

Nel 2050 potrebbero scomparire del tutto, ma prima di arrivare a questa drammatica conclusione, già assistiamo ad un mutamento nelle loro abitudini, in primis alimentari. In questi ultimi tempi si è sentito spesso parlare del mangiare vegano, un’alimentazione che prevede il prevalente consumo di vegetali, come naturale messa in atto della filosofia secondo la quale deve essere abolito ogni atto di sfruttamento e crudeltà verso il mondo animale. 

Che prenda origine da un viscerale principio o da un insulso allineamento di pensiero per sentirsi più chic, per noi rappresenta comunque una scelta. Se l’animale stesso che vogliamo preservare, decide di fare la stessa cosa, vuol dire che qualcosa non va nel verso giusto. In ogni caso significa che quel cambiamento che vorremmo evitare, per il quale giriamo la faccia dall’altra parte, è già in atto.  

L’orso polare per sopravvivere si sta nutrendo di alghe, bacche e quanto ormai riesce a trovare nello spazio che lo circonda, non più immerso nella neve, non più bianco e ricco di foche o trichechi, suo naturale nutrimento. Scorro la galleria di foto e quel caldo maglione mi sembra sempre più inadeguato. Una in particolare immortala un momento ad un anno di distanza, la Baia a novembre 2015 con -20° e un anno dopo con una minima di + 3°. 

L’orso che si aggira lungo le coste è confuso, frastornato, costretto a mangiare cani e piccoli della sua specie e quando diventa troppo pericoloso verrà narcotizzato, messo in un centro di accoglienza e portato in Antartide. Fino a quando anche quel luogo lo potrà ospitare, fino a quando ci sarà il ghiaccio. 

Possiamo decidere di non essere travolti da un cambiamento di cui neanche la scienza conosce bene la portata, oppure si può scegliere di guidare il cambiamento verso un mondo di serena convivenza con la natura che ci circonda. 

La stessa coesistenza tra esseri umani ne gioverà fortemente. La storia ci insegna che chi non accetta i cambiamenti per rimanere ancorato ai propri assurdi principi, soccombe sotto il peso della sua irragionevolezza. 

La storia si deve sempre ripetere o prima o poi saremo in grado di fare un mea culpa? 

Prima che sia troppo tardi.


domenica 12 novembre 2017

Quando partono i cervelli


In questi giorni si parla di pensioni, l’ennesima volta, e del loro adeguamento all’aspettativa di vita che, buon per noi, si allunga. Quindi le persone che rappresentano la forza lavoro oggi in Italia, dovranno andare a riposo sempre un po’ più tardi, forse per fare posto alle generazioni future. Ma di quali menti parliamo? Chi saranno i prossimi lavoratori, coloro sui quali si fonderà la forza economica e si spera anche intellettuale del nostro paese? 

In realtà questa speranza è molto flebile, ad un punto tale che si sta spegnendo. In termini pratici, di intellettuale rimarranno probabilmente solo i circoli in cui qualche cervello benestante parlerà in maniera distaccata del declino culturale di cui soffriamo da anni e potranno lamentarsene solo loro perché gli altri avranno dovuto emigrare per potersi garantire una vita al di sopra della soglia della dignità. 

Lontano dagli affetti familiari e da una terra che nonostante tutto amano e nella quale avrebbero amorevolmente offerto grande parte del loro immenso sapere. Ma no, questa terra li caccia via senza pietà e al posto loro fa entrare braccia, forza lavoro che non ci farà competere per alcun premio o riconoscimento di eccellenza. Manovali, badanti, pizzaioli che appagheranno il palato ma non la voglia di sapere. 

In effetti se già abbiamo poca autostima di noi stessi, delle nostre potenzialità, perché mai dovremmo avvalerci di geni o anche solo di serie professionalità? 
Perché quando ci si riferisce ai cervelli il pensiero non deve andare automaticamente a ricercatori o studiosi alla ricerca di un nobel, stiamo perdendo anche altro, sempre di qualità. 

Persone che hanno una specializzazione in qualche campo, senza necessariamente essere laureate. Lavoratori qualificati che dovrebbero essere pagati di più perché valgono di più, e qui siamo ad un altro punto cruciale ossia il merito che non viene valorizzato. Seguendo logiche clientelari e che ben poco hanno a che fare con ciò che è giusto, chi rimane fuori sono coloro che per sfortuna o onestà intellettuale si dichiarano al di là di quanto è già deciso. 

Oltre le regole di una sana competizione, al di là dei confini di un paese che non ha nessuna voglia di modificare quest’andamento, forse perché quelli che non vogliono cambiare sono la maggioranza che in questo sistema di cose ne trae enorme beneficio.

E sono qui a domandarmi il perché nessuno si preoccupi di questa emorragia di intelletto che ogni giorno ci impoverisce sempre di più, tanto meno lo hanno mai fatto seriamente i politici di turno, non è una questione così importante da trattare con serietà intorno ad un tavolo?

Mentre prendo atto del fatto che più che evolverci, stiamo perdendo la nostra identità, passo ad un secondo articolo in cui si parla del dramma dei giovani laureati. I quali non solo non vengono adeguatamente orientati su quale sia il corso più adatto alle loro capacità o predisposizioni, da spendere poi sul mercato del lavoro con più facilità, il punto è che non vengono neanche considerati un patrimonio di cui avere cura. 

Insomma i ragazzi vengono abbandonati a loro stessi, come se non fossero una risorsa preziosissima, ma piuttosto carne da macello il cui futuro non ha alcun valore. 

Il risultato è facile da intuire, il numero di laureati si riduce nel corso degli anni, aumentano coloro che abbandonano e soprattutto si perdono numeri nell’alta specializzazione. In pratica si scoraggiano i ragazzi con grandi capacità, le grandi menti del futuro che non lo diventeranno mai, in quanto per adeguarsi al mercato sceglieranno altro per poi finire a fare un lavoro sottopagato che nulla ha a che vedere con il proprio titolo, anch’esso inadeguato. 

Per contro, quelli che seguiranno con caparbietà il loro istinto, per eccellere saranno costretti ad andare altrove, verso paesi che li attendono con ansia per vedere aumentare nel tempo il loro PIL. Stiamo contribuendo in maniera significativa all’involuzione del mondo intero, sì perché siamo bravi in molti campi ed altrettanto bravi a distruggere tanta eccellenza. 

Si dice che il talento di un bambino debbano essere i genitori i primi a riconoscerlo e coltivarlo, allora si può ben dire di quanto sia un pessimo genitore questo paese. Per colpa nostra potrebbe non esserci un altro Einstein, e invece il mondo ha maledettamente bisogno di una mente brillante. 

D’altronde perché preoccuparcene, non è una questione che ci riguarda se siamo fermi con gli occhi al nostro piccolo, insensato mondo. 



domenica 22 ottobre 2017

Se è un bene che ci sia il male


Nella escalation terroristica dell’Isis più di una persona si è domandata come mai l’Italia sia rimasta fuori dagli obiettivi prioritari di un’organizzazione che si prefigge di punire gli infedeli, tutti coloro che non accettano un’interpretazione rigida e piuttosto estrema dell’Islam. Secondo questa religione Allah è l’unico Dio e Maometto ne è il messaggero. 

Partendo da queste scarne e semplici considerazioni è piuttosto logico pensare che un paese simbolo della cristianità e sede di colui che è considerato il successore di Pietro, il capo della Chiesa di Roma, debba essere visto, da coloro che professano il rigido precetto islamico, come un luogo di perdizione. 

Al pari di ciò che la Santa Inquisizione cattolica metteva in atto contro gli eretici, i sovversivi, streghe e stregoni, accusati di essere servi del demonio, contrari ai dogmi dell’ortodossia. Ad ogni eretico bruciato vivo, la religione era messa in salvo, purificata dai tentativi di sacrilegio di chi non rispondeva ai rigorosi canoni cattolici.

I secoli passano e oggi tocca a noi che viviamo nei luoghi con professione di fede cristiana ad essere considerati degli infedeli. Una macchia nella religione altrui che va eliminata per permettere quella purificazione, sempre attuale. Il fatto che ciò non si stia verificando su territorio italiano, pone degli interrogativi. Si potrebbe pensare che i sistemi investigativi e di spionaggio siano talmente efficaci che ogni tentativo viene sventato ancor prima di essere realizzato. 

Poco probabile visto che in giro per il mondo di certo saranno stati evitati alcuni attentati, ma per altri non è stato possibile, data l’intrinseca imprevedibilità dei singoli componenti. Insomma in questi casi non si è in grado di anticipare tutto soprattutto se la rete di contatti dell’organizzazione sa come muoversi sul territorio dove vive abitualmente. Ovvietà a parte, allora qual’è il motivo per cui un paese così a rischio come l’Italia sembra essere stato volutamente lasciato fuori dall’azione globale contro gli infedeli?

Leggo una notizia sul Corriere e questo amletico dubbio si scioglie come i ghiacciai di alta montagna. L’ex procuratore antimafia Macrì ci rivela che l’Isis è scesa a patti con la mafia nazionale o sarebbe il caso di dire che quest’ultima ha fiutato un’alleanza plurimilionaria e non se l’è fatta scappare. Una come si rende utile all’altra? Presto detto, la mafia controlla il traffico dei migranti verso l’Europa, perlomeno di quelli che riescono a raggiungere la terraferma dopo aver pagato il loro passaggio a miglior vita. Le due si dividono i proventi. 

A questo punto ho la sensazione di essermi persa qualche passaggio, in primo luogo dove è finita la parte religiosa di tutta la faccenda? Anche in questo caso mi viene in mente di nuovo la Santa Inquisizione che confiscava i beni degli eretici, i quali possedimenti non venivano considerati inquinati o impuri, potenza del denaro che sconfigge tutte le diversità. 

Nello stesso articolo viene annunciato come Milano sia la nuova capitale della droga, dove si fa il prezzo e qui mi domando cosa ne è stato invece dell’evoluzione culturale di un paese, il nostro, dove persino l’Isis riesce a trovare motivo per frenare la sua azione. 

Alla fine di tutte le considerazioni possibili, l’unica che sfida ogni opinione contraria è quella per cui la sola in grado di stare al passo con i tempi è la mafia stessa. Evolve nel modo in cui non ci si aspetterebbe, infrange barriere politiche, religiose, di razza, rivede le sue strategie se necessario. 

Da rumorosa attentatrice di macchine, palazzi e vite di ligi uomini di legge, diventa sempre più insondabile, silenziosa e si eleva di livello. Gioca a poker sulle nostre teste senza che ce ne accorgiamo, e mentre il popolo si affanna a nascondere il suo velato razzismo, lei con i “diversi” ci fa affari da nababbi. 

Non avrei voluto mai dirlo, ma credo che dovremmo imparare questo vedere oltre, tutto e tutti. Questo opportunismo al servizio dell’illegalità si bea di un progresso culturale che stenta a decollare e dove regna l’ignoranza il più scaltro dei commercianti si arricchisce e molto. 

Mi chiedo tra qualche centinaio d’anni quando il denaro potrebbe non farla più da padrone, in una società alla Star Trek, come riuscirebbe a sopravvivere una realtà così camaleontica come la mafia. A quel punto potrebbe essere talmente cambiato il contesto che la circonda che non esisterebbe più alcun appiglio per la sua evoluzione. 

A meno che non sfrutti i viaggi spaziali verso pianeti diversi dalla Terra, ormai inabitabile. Ma non è così che va a finire in Star Trek. 


domenica 1 ottobre 2017

Là dove finisce il mare


Nel punto dove l’acqua marina interrompe il proprio rapporto con il resto della sua immensità, si mescola alla terra dando vita a luoghi meravigliosi quali sono le spiagge. Ed è qui che la maggior parte delle persone cerca un contatto con la vastità oceanica, con ciò che consente la vita. Siano esse mete turistiche frequentate o territori ancora inesplorati, conservano un fascino unico in grado di mettere l’essere umano in relazione con la parte più profonda di sé. 

In fondo è nell’acqua che prendiamo corpo ed è lei che ci introduce alla vita, se rimaniamo a contemplarla da quel luogo in cui sceglie di fermarsi, decidiamo di ripartire dalle origini. La spiaggia può diventare un territorio magico, di cambiamento, ma anche spietato quando non riesce a fermare l’inquietudine della corrente. 

È nostro compito proteggerla, salvaguardarla, è la parte di nostra competenza, quella affidata alla nostra cura. In giro per il mondo l’uomo ha messo in atto una serie di misure per cercare di preservarla, di tenere a bada la forza distruttrice della natura per quanto possibile. Un’energia che erode quotidianamente, che cerca di farsi strada oltre i propri confini privando l’uomo dell’ultima frontiera che lo divide dagli abissi marini.

A tutti noi che non siamo esperti degli interventi da poter mettere in atto in questi casi, avremmo pensato semplicemente ad aggiungere ciò che viene portato via dal mare. Prelevare la sabbia dove ce n’è di più per mantenere l’estensione dove rischierebbe di sparire per sempre lasciando solo i ricordi di un paesaggio irripetibile. In effetti è proprio quanto viene fatto in alcune spiagge in giro per il mondo, a quanto pare è un intervento meno costoso di altri ed è efficace. 

A Miami pare sia un processo ormai consolidato con lo spostamento programmato di diversi metri cubi di sabbia che andranno a rimpiazzare quella erosa, e la spiaggia è ancora lì a simboleggiare un intervento dell’uomo provvidenziale. Per una delle rare volte in cui non distruggiamo qualche ecosistema, ci sarebbe da andarne veramente fieri. 

Sembrerebbe quasi un finale da favola e invece tocca fare delle distinzioni che, guarda caso e purtroppo, riguardano il nostro paese. Il quale di patrimonio naturalistico ne ha da vendere, ma non pare averne altrettanta cura, anzi spesso lo maltratta o lo trascura al punto che il lavoro sporco di distruggerlo viene lasciato agli agenti atmosferici e al tempo che scorre. 

Anche nel caso delle spiagge che spariscono la storia non cambia e si deve assistere dolorosamente alla morte prematura di luoghi bellissimi divorati dalle acque che, invece, il loro compito lo compiono incessantemente ogni singolo giorno che il sole ci concede. Per dovere di cronaca va detto che alcuni interventi sono stati compiuti, peccato che non fossero quelli opportuni tanto che hanno finito per essere controproducenti. Diciamo che la fantasia non ci viene a mancare quando si tratta di gettare colate di cemento dove non si dovrebbe. 

A ridosso del mare non sarebbe il luogo più indicato per ergere palazzi e in verità dove si costruiscono barriere insormontabili siano esse case, muraglie o lungomare di asfalto l’acqua distrugge senza pietà e le spiagge anno dopo anno diventano sempre più un ricordo. Però è quello che si fa in Italia, con il tristissimo risultato di chilometri di sabbia divorati dal mare e luoghi incantevoli cancellati per sempre. 

Il clima cambia e i diversi paesi si devono adeguare se non vogliono perdere parte del loro territorio. Nel nostro paese si devono modificare, in primo luogo, le cattive abitudini che fanno sperperare denaro senza un vantaggio per la collettività. 

Ci piace vantarci di avere posti incantevoli e ne è la prova il turismo internazionale che sceglie l’Italia come meta. Bisognerebbe iniziare a dimostrare che ci teniamo davvero. Quando un pezzo di natura svanisce è una perdita pesantissima per la comunità internazionale, perderla per negligenza, incuria o peggio perché ha prevalso l’interesse personale, è inaccettabile. 
Si spera che per tutto questo siano gli italiani a sentirsi più indignati e non solo i turisti.



domenica 10 settembre 2017

Un anticipo di inferno, per chi non sa aspettare


Le agognate piogge dei recenti giorni hanno fatto tirare un respiro di sollievo dalla opprimente calura estiva e dai roghi che hanno deturpato zone naturalistiche di inestimabile bellezza. Lungo l’autostrada che mi riportava a casa dopo qualche giorno di ferie osservavo attonita uno scempio del paesaggio che mi circondava. 

Rigogliose aree boschive che dopo qualche chilometro lasciavano spazio a scenari post apocalittici caratterizzati da un dominante color carbone. Nero ovunque, sul terreno, sui pochi fusti rimasti, esili e senza vita, triste testimonianza di un’azione scellerata e che quasi sicuramente rimarrà impunita. 

Nero anche sulle nostre coscienze, perché ognuno di noi ha un’altissima responsabilità nella salvaguardia della natura, degli animali, di quanto in verità ci permette di respirare. Chi legge probabilmente si sentirà tirato in causa ingiustamente perché penserà che la maggior parte di questi incendi sono legati ad un arricchimento di altri, ad un lucro personale o organizzato. 

Tutte ragioni che riguardano solo i singoli individui che decidono di donare l’anima al diavolo il quale in cambio dona a tutti un anticipo di inferno, anche a chi magari sarebbe destinato a ben altri luoghi eterni. 

Insomma cosa c’entrano le brave persone con queste barbare uccisioni di animali innocenti e piante donatrici di ossigeno compiute in cambio di vile denaro, opportunità, piantagioni di fusti che tra qualche anno saranno di nuovo pronti per l’ennesimo scenario infernale?

In un contesto dove ogni appartenente alla società si sente fortemente responsabile della sorte di quanto fa parte non solo del proprio giardino ma della comunità intera è un muro molto più difficilmente penetrabile da chi vuole compiere azioni disoneste. 

Le cattive intenzioni si materializzano lì dove incontrano complicità e non resistenza, senso di appartenenza e non menefreghismo. Quando buttiamo un mozzicone di sigaretta per terra abbiamo contribuito ad appiccare un incendio anche quando viene gettato su una superficie non infiammabile. 

Così come i rifiuti lasciati indiscriminatamente in luoghi non propriamente adibiti al loro smaltimento, ben visibili agli occhi di un potenziale piromane che penserà di essere capitato proprio nel posto giusto, terra di chi non ha coscienza ambientale. 

Luogo perfetto per distruggere ciò che non sta nel cuore di nessuno, ma solo negli occhi di chi veste i panni del turista e si bea della vista di un bel panorama, lasciando ad altri l’incombenza della sua integrità.

E cosa ne è di chi dovrebbe trasmettere i valori in grado di cambiare le sorti di un paese intero, educare al rispetto e alla civile convivenza? 

Mentre percorrevo quei chilometri di lande desolate e brulle, avevo l’impressione di essere capitata nella terra del non governo. Come figli abbandonati da un padre distratto e poco presente, quei luoghi lasciati al libero arbitrio dei malfattori avevano l’aspetto di indelebili cicatrici che testimoniano l’assenza delle buone coscienze.

Lo Stato, come un buon padre di famiglia, dovrebbe instillare nei suoi figli l’educazione che consiste in regole da rispettare, ma non solo. Il suo è un buon esempio che vale più di tante parole, chi lo rappresenta ha l’obbligo morale prima che istituzionale, di mostrare quanto ci tiene all’immenso patrimonio naturalistico che si trova a gestire. 

I figli che siamo tutti noi, abbiamo il dovere di rispettare la natura che ci ospita, attraverso le azioni che compiamo tutti i giorni, giusto per non correre il rischio di diventare complici della cattiva prole. 

A quel punto nessuno potrà proclamarsi innocente, ma dovrà semplicemente accettare le brutte conseguenze di vivere nel luogo che ha contribuito a creare. Soprattutto quando ricadranno sulla sua stessa esistenza. 

domenica 20 agosto 2017

Le cose potrebbero andare peggio


Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli occhi un articolo condiviso su Facebook tratto dalla famosa testata giornalistica “The Guardian”. 
Articolo lunghissimo, complicato ma ci poteva stare visto che analizzava in maniera oggettiva l’odierna situazione del pianeta. Analizzata dal punto di vista dell’opinione pubblica, dei mass media e di un piccolo, ma crescente gruppo di pensatori, accademici, commentatori etichettati come i Nuovi Ottimisti.

La maggior parte delle persone pensano che il momento che stiamo vivendo sia molto brutto, negativo da tutti i punti di vista e in futuro non potrà andare meglio. È giustificato tutto questo pessimismo? Stando a quanto viene dettagliatamente argomentato in questo articolo non proprio. 

Le notizie cupe fanno più proseliti di uno scaltro guru e funzionano perfettamente da cassa di risonanza per questo o quell’altro argomento, con indubbi vantaggi politici. E le cose strillate acquistano più valore e quindi maggior credibilità. Insomma, fatti brutti nel mondo accadono, ma il più delle volte si dà loro un’importanza eccessiva, molto più di quanto effettivamente hanno. 

Perlomeno non per la legge dei grandi numeri. Perché dobbiamo ragionare in termini di contesti planetari e non di piccole realtà. Facendo un esempio banale, un incidente aereo rappresenta una sciagura che scuote la tranquillità perché causa molti morti e il suo andamento è piuttosto violento. 

Un fatto terribile soprattutto per chi lo vive personalmente perdendo un familiare o una persona cara, ma questo non cambia la realtà oggettiva ossia che l’aereo rimane uno dei mezzi più sicuri per viaggiare. Stando alle cifre ufficiali è l’automobile il mezzo che dovremmo temere in assoluto. 

Facendo quest’esempio viene da riflettere sul fatto che molto spesso ci facciamo trascinare dai mass media in un’analisi dei fatti che fa molto leva sulle emozioni e ben poco sui numeri, incontrovertibili. Penserete che però è un po’ cinico ragionare valutando la realtà nel suo insieme, snobbando gli avvenimenti poco frequenti o che non incidono in modo significativo sull’umanità intera. In realtà questo è l’unico modo per rimanere oggettivi, per avvicinarsi il più possibile alla verità. 

Nel mese di Dicembre del 2016 un articolo del Times andò in controtendenza descrivendo uno scenario ben diverso da quello che la maggior parte dei giornali ci confeziona giornalmente. Il 2016 sarebbe stato un anno incredibilmente positivo anzi il migliore nella storia dell’umanità. I poveri sono sempre meno poveri, le malattie incurabili diminuiscono sensibilmente e aumenta invece l’accesso alle cure, nel mondo sempre meno persone sono in una soglia di estrema indigenza. 

E non è finita, le emissioni dal carbone utilizzato come combustibile sono diminuite per il terzo anno consecutivo, la pena di morte è considerata illegale in più della metà dei paesi al mondo e i panda giganti non sono più nella lista delle specie in via di estinzione. Sono indubbiamente fatti molto positivi ai quali la stampa non ha dato quella risonanza che, per contro, una brutta notizia avrebbe avuto di diritto. 

Comunque anche se la qualità di vita dell’umanità vista nel suo insieme sta progressivamente migliorando, vi è la consapevolezza che questo equilibrio potrebbe essere sconvolto improvvisamente, grazie all’innata capacità degli esseri umani di rovinare tutto. 

Dovremmo cominciare ad essere realisti, imparando a vedere ciò che ci circonda per quello che realmente è, senza farci influenzare. Ragionare in maniera autonoma è già un buon inizio. 
Lo è ancor di più valutare i fatti non solo per come appaiono, ma nei loro possibili risvolti in caso contrario. Se fosse andata diversamente non è detto che sarebbe stato meglio. 

L’elezione di Trump a presidente è un fatto che si considera, in linea di massima, negativo. Johan Norbert, storico svedese e dichiarato Nuovo Ottimista afferma che se ad essere eletta fosse stata la Clinton le cose potevano mettersi anche peggio. Alle prossime elezioni, dopo anni in cui l’avversario avrebbe costruito un vero impero mediatico contro il governo, si sarebbe candidato un vero esponente di destra, di quelli che fanno veramente sul serio, che sanno veramente influenzare. E avremmo rimpianto questo scenario, quello che sta realmente accadendo. 

Se la qualità di vita dell’umanità va di bene in meglio ogni secolo che passa, rimane una questione da risolvere: quella ambientale. Che incide sui grandi numeri e non si può sottovalutare. Visto che il pianeta si prepara ad un consumismo globale, per le migliorate condizioni di vita.

Per usare la filosofia dei Nuovi Ottimisti, direi che se non ci fossero tutte le persone che si impegnano giornalmente per proteggere la natura chissà dove saremmo ora. Motivo in più per continuare a farlo seriamente. Abbiamo le potenzialità per fare in modo che le cose vadano decisamente meglio. E non solo dal punto di vista ambientale.


domenica 6 agosto 2017

Salvare la natura costa la vita


Leggendo la cifra dell’attuale popolazione mondiale ossia 7,5 miliardi di persone mi sono chiesta se la Terra, già violentata senza pietà, potesse offrire a queste nuove vite, sufficienti risorse per la sopravvivenza. E soprattutto a quelle che verranno in un prossimo, vicinissimo futuro che andranno ad ingrossare questa cifra, visto che l’aumento è esponenziale. 

Non mi sembra passato così tanto tempo da quando lessi che gli occupanti del suolo terrestre erano “solo” 6 miliardi, e già avevo avuto il sospetto che questo pianeta stesse diventando sempre più piccolo. Ma se le risorse disponibili non saranno sufficienti a sfamare così tante bocche, qual è il futuro che ci aspetta?

Gli effetti di uno sfruttamento indiscriminato li stiamo già vedendo, sul clima, sulle porzioni di Terra ancora incontaminata che si stanno riducendo sempre di più fino a sparire. Cosa mangeranno 15 miliardi di persone quando la Terra non avrà più nulla da offrire? 

Diciamo che al momento si pensa a come affrontare il quotidiano e di quel domani non si preoccupa nessuno o quasi. In quel quasi sono compresi tutti coloro che cercano di salvare il salvabile, di evitare che altri alberi vengano abbattuti, che le acque oceaniche vengano depredate, che la purezza venga inquinata, che la deforestazione faccia spazio a terreni da adibire a pascoli. 

Chi legge penserà che forse non si può fare altrimenti visto che tutti devono pur sopravvivere, e lo sfruttamento è necessario affinché nessuno muoia di fame. Purtroppo mi duole dire che le cose non stanno in questi termini, e il sistema mondiale che l’uomo ha messo in piedi è a dir poco aberrante. 

Dietro la distruzione della Terra si celano interessi economici enormi, di persone che sono totalmente indifferenti rispetto alle conseguenze delle proprie azioni. L’unica cosa che conta è l’aumento degli introiti del loro business e se qualcuno si mette in mezzo per ostacolare questo obiettivo diventa un problema da eliminare. 

Sono in aumento i delitti di coloro che si potrebbe definire i “paladini della Terra”, chi pone come obiettivo della propria esistenza la difesa della natura, chi si espone in prima persona per dire no a quello sfruttamento indiscriminato che caccia gli ultimi aborigeni dalle loro terre. Nel 2016 è stata uccisa in Honduras Berta Càceres, attivista ambientale e leader dei movimenti indigeni. 

Si era battuta per frenare lo scempio del territorio da parte delle industrie minerarie e idroelettriche, che avrebbe tolto l’acqua a molti nativi della zona. Un gruppo armato è entrato nella sua abitazione sparandole ripetutamente, la sua morte doveva essere certissima. 

Il suo è un esempio eclatante ma nel 2017 già un centinaio di paladini sono stati ammazzati con motivazioni simili. Ma perché fanno tanta paura da arrivare addirittura alla loro eliminazione fisica? Quali sono gli interessi che si celano dietro queste brutali uccisioni? In Brasile l’industria del legname ha interesse che la foresta venga abbattuta albero dopo albero. 

In Africa l’obiettivo è di riuscire a  strappare l’ultima zanna ricca di avorio o una pelliccia che scaldi le giornate di un ricco, per il suo cuore non c’è più speranza. L’industria mineraria dal canto suo divora oro, cobalto e uranio per soddisfare i molteplici usi di una società consumistica senza freni. Comprare in maniera oculata può davvero salvare qualche vita. 

Quelle dei poveri che per qualche spiccio muoiono intossicati in una miniera e quella dell’attivista ambientale che cerca di conservare la bellezza. Non crediate che il povero veda questi paladini come salvatori, perché in una ben architettata lotta tra miserabili, loro sono quelli che tolgono il pane di bocca agli affamati, che senza quel misero lavoro non vivranno, che senza quelle briciole non possono pensare ad un domani.

In questo disegno perfetto, almeno per chi ci sguazza come zio Paperone, le uccisioni degli scomodi potrebbero essere legalizzate anche nei paesi cosiddetti “civili”. Nella super-avanzata America la costruzione di un oleodotto nel Nord Dakota venne strenuamente osteggiata da un gruppo di paladini che avevano a cuore le riserve indiane al centro dell’interesse economico. 

La protesta di Standing Rock , così denominata, diventò celebre e qualcuno si prese la briga di scrivere una legge che legalizzava l’apertura del fuoco nei loro confronti. Non è passata per poco, sono stati sgombrati da vivi. Almeno per questa volta. 

In Italia stiamo vivendo un’estate infuocata grazie ai vari incendi che devastano paesaggi meravigliosi, non c’è traccia di veri e propri paladini che ostacolino la bramosa ricerca di suolo da cementificare. 
Quando poi addirittura lo Stato mostra indifferenza di fronte a tali scempi, la speranza di sopravvivere è debole.

L’ennesimo anello che si lega agli altri, nel perfetto disegno di creare situazioni in cui il povero ci vede l’illusione di un riscatto dalla propria condizione e magari il ricco passa pure da benefattore. 
Intanto la Terra langue e il divario cresce. Per i dolci sogni di pochi. 




martedì 18 luglio 2017

100° post e un ringraziamento speciale


Se penso che sono passati più di due anni da quel giorno in cui decisi che non volevo continuare a scrivere senza far sapere nulla della mia passione, senza che gli altri venissero a sapere cosa ne penso di questo o quell'argomento. Con il tempo qualche insicurezza si è sciolta lasciando il posto alla convinzione che se riesco ad osservare bene la realtà che mi circonda, posso regalare agli altri riflessioni che si sono perse nella velocità del vivere quotidiano.

Ho pensato che ciò che ci manca è proprio deconcentrarci da noi stessi e lasciare una parte di neuroni dedicati ad elaborare cose che non ci riguardano personalmente. Né noi né nostri familiari, altre persone che neanche conosciamo ma che, per qualche motivo, incrociamo lungo il nostro cammino.

Cominciare a riflettere sul perché certe persone si comportano in un certo modo e se possiamo fare qualcosa per cambiare determinate situazioni. L'immobilismo dovuto all'eccessiva concentrazione sulle nostre esistenze é il peggior frutto della società moderna.

Non è stato facile parlare di alcuni argomenti, anche perché il rischio di rimanere fossilizzati sulle proprie convinzioni è sempre altissimo e aprirsi al punto di vista dell'altro é compito piuttosto impegnativo per un essere umano. La storia insegna. Non pensavo che sarei riuscita ad essere costante, ma ora che sto scrivendo con il treno in movimento mi fa pensare che la motivazione é stata sempre più forte, anche più della stanchezza.

Ecco perché continuo a pensare che le passioni vadano coltivate. Sono terapeutiche, perlomeno per me la scrittura lo è stata e renderla pubblica credo anche di più. Oggi che mi trovo a scrivere il 100° post posso dire che è stata un'avventura fantastica. Sentire persone che mi leggevano e poi sentivano il bisogno di condividere con me il loro punto di vista è stato gratificante, ancor di più sapere di aver suscitato una riflessione.

Oggi però questo post rappresenta soprattutto l'occasione per ringraziare di cuore le persone che hanno preso parte alla prima presentazione del mio libro "Quando le foglie scadono". É stata una serata appassionante, ricca di domande, interesse e curiosità. Hanno partecipato lettori attenti, seri e sinceramente coinvolti dal tema trattato. Né è nato un dibattito durato circa due ore che ha fatto scorrere il tempo più velocemente.

Sono arrivata alla fine, insieme al relatore nonché consulente scientifico dell'opera Daniele Bianchini, senza neanche rendermene conto, tanto era stato il coinvolgimento. Non sono abituata ad esposizioni in pubblico e ne ero intimorita, e invece non potevo avere platea migliore. Persone appassionate di fantascienza ed estremamente curiose che si sono dimostrate interlocutori vivaci e attenti.

La presentazione è durata più del previsto, ma alla fine ero veramente soddisfatta, anche perché penso di non averli annoiati e per uno scrittore/oratore non è mai una cosa scontata.
Spero che il libro non vi deluda e vi restituisca il dovuto ringraziamento.


mercoledì 12 luglio 2017

L'immensa soddisfazione di aver raggiunto un traguardo


Quando ho cominciato a ragionare che volevo davvero realizzare qualcosa di concreto per proteggere la natura, istintivamente il mio pensiero è andato a una delle cose che mi piace più fare ossia scrivere. Anche se avevo in mente i protagonisti e in linea generale la storia, la cosa che più mi ha aiutato a concretizzare il mondo di “Quando le foglie scadono” è stato scriverlo. 

Sembra un’ovvietà ma è andata proprio così. Man mano che fissavo le parole sulla pagina bianca, ciò che avrei dovuto scrivere dopo non era altro che una conseguenza. Come se la storia si scrivesse da sola. Ma scrivere un libro rappresenta un progetto veramente impegnativo e il traguardo non sembra mai raggiungibile. 

Soprattutto per il fatto che si svolge in un periodo di tempo molto lungo, anche anni e la vita non è mai così regolare da permettere un andamento lineare. Succedono tanti avvenimenti, a volte tristi, che fanno distogliere dall’obiettivo, che rendono più pessimisti e fanno pensare che forse è un’impresa impossibile. 

Però qualsiasi cosa accada, il pensiero, prima o poi, torna lì, dove tutto si è interrotto. E sapere di essere stati sconfitti ancor prima di provarci, fa sentire piuttosto scontenti di sé. Alla fine la motivazione fa sempre la differenza e non fa desistere, nonostante tutto. È passato qualche anno da quel proponimento di cui ho parlato all’inizio, e tante vicissitudini mi hanno forgiata, ma mai per un attimo ho voluto mollare. 

La tenacia ha dato il suo frutto e ora posso toccare con mano quell’incredibile storia che balenava tra i pensieri in fermento. “Quando le foglie scadono” non è solo il mio libro, ma è un traguardo raggiunto. La dimostrazione che quando si vuole fortemente una cosa la si può ottenere, e parlo soprattutto di qualcosa che dipende solo dalla nostra volontà perché se c’è di mezzo quella altrui allora le possibilità di successo non sono mai certe. 

Anche in questo caso bisogna comunque provarci perché vivere di rimpianti può essere piuttosto avvilente. Tornando a me, mentre la storia si scriveva da sola, io vedevo la sua naturale conclusione sempre più vicina. Avevo creato un mondo, dei personaggi e solo io avevo possibilità di fare in modo che le cose andassero in un certo modo. 

I capitoli però sono andati avanti e la storia si è svolta in quel mondo, esattamente così come avrebbe dovuto. Sembrerebbe quasi che lo scrittore non abbia potere su quanto lui stesso sta scrivendo e in verità quando si vuole che qualche idea brillante illumini, questo accade solo continuando a scrivere. Ho avuto l’impressione che la storia era lì, da qualche parte nell’etere, che attendeva qualche mano che la fissasse sul foglio. 

Potrebbe entrarci qualcosa Prodigiosa, uno dei personaggi più avvincenti del romanzo, e io mi rimetto umilmente al suo volere. Spero che anche il pubblico si senta attratto dai personaggi e vedendo la proiezione di un mondo sull’orlo del disastro ambientale, improbabile ma non impossibile, cominci a riflettere su quanto di più prezioso dobbiamo salvaguardare.

Presenterò a voi tutti questo mondo sabato 15 luglio alle 19.30 a Roma presso il locale Gente di San Lorenzo e mi auguro che anche voi ne rimaniate affascinati e spaventati, esattamente come è successo a me. Ancora prima di scriverlo. 


domenica 2 luglio 2017

Un esame di maturità può essere illuminante


“Non uccidete il mare
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a esser bella,
scomparso l’uomo, la terra”.

Questi versi di Giorgio Caproni hanno costituito una delle prove di italiano dell’esame di maturità di quest’anno e ispirano riflessioni profonde sul rapporto tra l’uomo e la natura. Non certo sereno, sempre di sfruttamento e mai rispettoso, continuamente orientato ad un profitto personale e noncurante dei terribili risvolti sull’esistenza. 

La società moderna si è mostrata disinteressata a chi deliberatamente ha creato un danno nell’ecosistema, anzi a volte chi si è macchiato di queste azioni è stato, magari in altri ambiti, premiato. La cruda verità è che la natura non ha bisogno dell’uomo e anzi senza la sua presenza tornerebbe ad una bellezza antica, ad uno splendore primordiale, una quiete ormai perduta per colpa di una convivenza forzata e ormai insostenibile.

Ma l’uomo sì, ne ha un disperato bisogno. E come pensa di poter continuare a vivere distruggendo la fonte della sua stessa sopravvivenza? 
Se un ragazzo si pone questa domanda, allora non siamo ancora perduti. C’è sempre la speranza che una riflessione profonda porti ad un cambiamento. Il fatto che sia la scuola a suscitarla, rincuora e può rivelarsi un evento non privo di conseguenze.

Esattamente come quando nell’ormai lontano 1992 mi trovai ad affrontare un esame di maturità che rivelava quanto fosse stata sbagliata la scelta degli studi superiori, ma si sa a quell’età non si è abbastanza lungimiranti. E tra conti matematici e prove di contabilità cercavo di riscattarmi, mettendomi alla prova su ciò che sapevo fare meglio, scrivere. E l’occasione si presentò, incredibilmente invitante. 

Un tema sul summit di Rio de Janeiro in svolgimento in quei giorni, la prima vera, grande conferenza sulla questione ambientale e lo sviluppo. Si è cominciato a parlare di sviluppo sostenibile quindi, argomento che sarebbe diventato di uso quotidiano quasi trent’anni dopo. 

Difficile spiegare il perché cominciai a pensarci qualche giorno prima, sì se ne parlava ma proprio perché troppo attuale fu scartato da tutti come possibile argomento. Io invece ho continuato a pensarci insistentemente e mi sono creata parecchie storie possibili in merito alle conseguenze di uno sfruttamento nefasto dell’uomo sulla natura. 

Ed è quanto ho scritto alla prova ufficiale. Ho ricevuto molti complimenti dalla commissione, ma la mia più grande soddisfazione è stata quella di cogliere un segnale. Per quanto, per molti anni ancora non avrei avuto il coraggio di seguirlo di nuovo. 

Perché se è vero che spesso la vita ci distoglie da quelle che sono le nostre predisposizioni, in realtà fa di tutto per riportarci esattamente lì dove il discorso si è interrotto. Ed è stato in momenti molto bui che ho voluto ricominciare da ciò che mi faceva sentire veramente bene, scrivere e impegnarmi concretamente per preservare la natura. Venticinque anni dopo di nuovo un esame che parla del rapporto tra uomo e natura, e questa volta  lo fa in termini più drammatici. 

Sono lontani i tempi di Rio in cui i paesi partecipanti potevano permettersi il lusso di impegnarsi solo a parole, ora abbiamo un immediato bisogno di azioni concrete. Io per prima, mi sono impegnata a fondo, ma questa volta non per una lettura destinata a pochi membri di una commissione d’esame ma un intero pubblico di lettori. 

È presuntuoso sperare che un libro porti un cambiamento? 
Potrebbe, in realtà spero che i ragazzi ai quali è anche rivolto, si sentano dei destinatari con un compito veramente arduo ma importantissimo. Essere in grado di costruire il futuro.  Un futuro diverso di “Quando le foglie scadono…”
Ne dovremo per forza riparlare.