“Non uccidete il mare
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a esser bella,
scomparso l’uomo, la terra”.
Questi versi di Giorgio Caproni hanno costituito una delle prove di italiano dell’esame di maturità di quest’anno e ispirano riflessioni profonde sul rapporto tra l’uomo e la natura. Non certo sereno, sempre di sfruttamento e mai rispettoso, continuamente orientato ad un profitto personale e noncurante dei terribili risvolti sull’esistenza.
La società moderna si è mostrata disinteressata a chi deliberatamente ha creato un danno nell’ecosistema, anzi a volte chi si è macchiato di queste azioni è stato, magari in altri ambiti, premiato. La cruda verità è che la natura non ha bisogno dell’uomo e anzi senza la sua presenza tornerebbe ad una bellezza antica, ad uno splendore primordiale, una quiete ormai perduta per colpa di una convivenza forzata e ormai insostenibile.
Ma l’uomo sì, ne ha un disperato bisogno. E come pensa di poter continuare a vivere distruggendo la fonte della sua stessa sopravvivenza?
Se un ragazzo si pone questa domanda, allora non siamo ancora perduti. C’è sempre la speranza che una riflessione profonda porti ad un cambiamento. Il fatto che sia la scuola a suscitarla, rincuora e può rivelarsi un evento non privo di conseguenze.
Esattamente come quando nell’ormai lontano 1992 mi trovai ad affrontare un esame di maturità che rivelava quanto fosse stata sbagliata la scelta degli studi superiori, ma si sa a quell’età non si è abbastanza lungimiranti. E tra conti matematici e prove di contabilità cercavo di riscattarmi, mettendomi alla prova su ciò che sapevo fare meglio, scrivere. E l’occasione si presentò, incredibilmente invitante.
Un tema sul summit di Rio de Janeiro in svolgimento in quei giorni, la prima vera, grande conferenza sulla questione ambientale e lo sviluppo. Si è cominciato a parlare di sviluppo sostenibile quindi, argomento che sarebbe diventato di uso quotidiano quasi trent’anni dopo.
Difficile spiegare il perché cominciai a pensarci qualche giorno prima, sì se ne parlava ma proprio perché troppo attuale fu scartato da tutti come possibile argomento. Io invece ho continuato a pensarci insistentemente e mi sono creata parecchie storie possibili in merito alle conseguenze di uno sfruttamento nefasto dell’uomo sulla natura.
Ed è quanto ho scritto alla prova ufficiale. Ho ricevuto molti complimenti dalla commissione, ma la mia più grande soddisfazione è stata quella di cogliere un segnale. Per quanto, per molti anni ancora non avrei avuto il coraggio di seguirlo di nuovo.
Perché se è vero che spesso la vita ci distoglie da quelle che sono le nostre predisposizioni, in realtà fa di tutto per riportarci esattamente lì dove il discorso si è interrotto. Ed è stato in momenti molto bui che ho voluto ricominciare da ciò che mi faceva sentire veramente bene, scrivere e impegnarmi concretamente per preservare la natura. Venticinque anni dopo di nuovo un esame che parla del rapporto tra uomo e natura, e questa volta lo fa in termini più drammatici.
Sono lontani i tempi di Rio in cui i paesi partecipanti potevano permettersi il lusso di impegnarsi solo a parole, ora abbiamo un immediato bisogno di azioni concrete. Io per prima, mi sono impegnata a fondo, ma questa volta non per una lettura destinata a pochi membri di una commissione d’esame ma un intero pubblico di lettori.
È presuntuoso sperare che un libro porti un cambiamento?
Potrebbe, in realtà spero che i ragazzi ai quali è anche rivolto, si sentano dei destinatari con un compito veramente arduo ma importantissimo. Essere in grado di costruire il futuro. Un futuro diverso di “Quando le foglie scadono…”
Ne dovremo per forza riparlare.
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