“Quando ero ragazzo, passeggiando per Parigi, mia sorella ha urtato per sbaglio un uomo, che ha sputato a terra e l’ha chiamata “sporca araba”. Quel giorno ho capito che cosa sarei diventato», ha dichiarato qualche anno fa un attentatore francese.
La società è come un terreno coltivabile, dove i germogli che potrebbero diventare bellissimi alberi rigogliosi di frutti, se non amorevolmente curati rischiano di trasformarsi in pericolose piante infestanti.
Le amorevoli cure sono rappresentate dal rispetto, dalla gentilezza, dall’onestà di pensiero che vede tutti gli abitanti di questo globo persone con i medesimi diritti.
In una società con queste caratteristiche non c’è lavaggio del cervello che funzioni, non c’è necessità di entrare a far parte di un gruppo ristretto per sentirsi amato e considerato. Non ci sono buoni motivi per reputare tutti quelli che non vi appartengono nemici la cui vita vale meno di niente.
In un momento di smarrimento si può arrivare a credere nelle parole di uno o più comandanti che sembrano indicare la giusta via, che fanno veramente pensare che quella è la perfetta occasione per sacrificare anche la propria vita. In nome di un ideale che salva l’anima, i peccati e distrugge l’entità nemica.
E se la persona perseguitata da mille dubbi comincia a pensare filtrando a dovere i messaggi estremi? Se improvvisamente la società diventa il gruppo dove ognuno si sente più forte e con le stesse opportunità degli altri? A quel punto quegli “altri” non rappresentano più un bersaglio così allettante.
Tutti siamo chiamati a lavorare sodo per rendere una società giusta, un luogo dove ci si sente a casa, senza amici e nemici, sfruttatori e sfruttati. Anche se si è costruita nel corso della storia proprio sui rapporti di forza, la necessità di prevalere, l’assoluto rifiuto della condivisione.
Se ci ritroviamo in una collettività globale fondata sulla prevaricazione e sul conseguente desiderio di dominare, sia per pura brama di potere che per meri interessi economici, possiamo prendercela solo con noi stessi.
Sì ma in tutto questo Bello Figo cosa c’entra?
Assistevo per caso alla visione, via YouTube, del dibattito infuocato tra lui, il re dello Swag e alcuni partecipanti, tra cui esponenti politici. Loro inveivano contro, mentre lui pacificamente, rispondeva che le sue sono solo provocazioni ad arte. È stato allora che ho avuto un’illuminazione.
Descrizioni volutamente grottesche della vita di un immigrato nel nostro paese, di ciò che desidera e che magicamente riesce ad ottenere. Sembrerebbe palese che non si sta prendendo gioco degli immigrati, semplicemente enfatizza per far discutere del problema. Invece diventa a sua insaputa il capro espiatorio di ogni risvolto negativo dell’immigrazione, della povertà di altri, dell’incapacità di chi è deputato a risolverli.
Ma lui se la ride, risponde con uno sguardo benevolo alle invettive, non mostra risentimento, è l’esempio perfetto dell’immigrato che ha fatto successo, che si sente parte di una comunità, che non veste i panni disperati dello straniero suggestionabile.
Su un giornale è stato scritto che grazie a queste canzoni spregiudicate, riesce a guadagnare molti soldi e a permettersi auto, vestiti, gioielli. In realtà quando si è abbastanza acuti da capirne il senso, ci si rende conto che colui che risponde che l’Italia è il suo paese, che riesce a parlare in maniera ironica di questioni importanti e a carpire l’attenzione di giovani come lui che ne fanno un’icona è l’antiterrorista per eccellenza.
Quello che nessuna organizzazione estremista andrebbe mai a cercare, ben integrato, scarsamente influenzabile, con tutta l’intenzione di vivere pienamente la sua vita, un bene per nulla sacrificabile.
Dovremmo solo sperare di averne a migliaia di Bello Figo intorno a noi. L’ineccepibile esempio di immigrato che ogni società evoluta vorrebbe ospitare.
Un luogo dove sentirsi più sicuri e magari riusciremmo anche a divertirci con la sua ironia.
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