Oggi la giornata è dedicata al lavoro, ed in particolare ai diritti di tutti coloro che un lavoro lo svolgono. Il ricordo ci dovrebbe riportare indietro di più di un secolo, ai primi di maggio del 1886 a Chicago dove una manifestazione operaia finì in un massacro. La protesta era scaturita dall’assenza totale di diritti, si arrivava anche a 16 ore di lavoro al giorno, in pessime condizioni, portando le persone alla morte nelle stesse fabbriche. La rivolta denominata di Haymarket, dal nome della piazza che ospitava il mercato delle macchine agricole, durò tre giorni e finì il 4 maggio in un massacro, con undici morti negli scontri tra polizia e manifestanti.
Se oggi non abbiamo dimenticato cosa successe quei giorni di tanti anni fa, dobbiamo fare altrettanto ricordando che in quel periodo era normale trovare persone in giovanissima età che passavano la loro infanzia nelle fabbriche. Molto spesso i danni fisici che riportavano non consentivano loro di avere una vita normale, sempre che avevano la fortuna di arrivare all’età adulta.
Dovremmo guardarci indietro inorriditi con la certezza che se andiamo avanti nel tempo, siamo in grado di superare situazioni noncuranti della dignità umana.
Purtroppo la condizione che ne è responsabile ossia la povertà, non è stata eliminata ed in alcuni paesi nel mondo, i bambini continuano ad essere vittime di contesti a dir poco sfortunati. Costretti a diventare grandi, per tentare di far sopravvivere una famiglia intera.
Con l’avvento della rivoluzione industriale venivano impiegati soprattutto nell’industria tessile, le mani molto piccole permettevano, infatti, di infilare agevolmente il filo e lavorarlo. In Inghilterra o in America era possibile trovare situazioni del genere e se la rivoluzione si fosse diffusa a tutto il globo oggi sarebbe diverso. Negli anni a venire però, le cose non andarono per tutti allo stesso modo ed il mondo si è diviso in paesi sviluppati, ricchi, progrediti e paesi che forse un giorno lo diventeranno, sempre che i primi abbiano lasciato ancora qualcosa da poter sfruttare.
Del resto i bambini fortunati devono vestirsi, mangiare merendine, possedere un cellulare e poterlo cambiare quando esce un modello più nuovo. Per creare questi prodotti è necessario che qualcun altro dedichi ore della sua giornata per contribuire a questa produzione.
Il problema ed anche pesante, sorge quando queste ore sono sottratte al gioco e allo studio, privando la persona dell’istruzione che sarebbe necessaria per cambiare la sua condizione. La quale non si modificherà nel futuro, condannando chi ne è vittima ad una vita miserabile. Le ore di lavoro occupano intere giornate, il salario non è scaturito da una contrattazione e se il piccolo è estremamente fortunato si ritrova a cucire tappeti o scarpe. Che il bambino che le indosserà pagherà molti soldi, nonostante il bambino che le ha cucite verrà pagato molto, molto poco.
Fin qui molte cose non tornano, ancor meno quando ci spostiamo in luoghi dove si produce non la scarpa famosa, ma l’ingrediente di una merendina o un minerale essenziale per assemblare un cellulare o un tablet. Una miniera non è un bel posto per nessuno, figurarci un essere in via di sviluppo. Nel Congo si produce molto del cobalto utilizzato per le batterie al litio di diversi dispositivi, e c’è bisogno di qualcuno che lo estragga rovinando per sempre i suoi polmoni, sempre che riesca a sopravvivere.
In Indonesia viene prodotto gran parte dell’olio di palma che si trova in molti alimenti confezionati. Molte persone devono lavorare nelle piantagioni per mantenere una elevata produzione, in mezzo a pesticidi tossici, trasportando carichi di frutta anche di 25 chili. Trattandosi di luoghi ricchi di povertà, la possibilità che a vivere in queste condizioni sia una persona minore di 18 anni, è molto elevata, senza la benché minima tutela, con un rischio esponenziale di morte o danni fisici gravi.
Ora però la produzione di olio di palma è etichettata come sostenibile, tanto per sentirsi a posto con la coscienza. Io mi sento a posto solo se consumo poco, mangio con morigeratezza, faccio durare il più a lungo possibile il cellulare o la scarpa di marca famosa. È l’unica arma che ho per rallentare quella produzione, abbassare la soglia di voracità di un consumismo divenuto ormai insostenibile per la Terra e per i suoi abitanti.
Questo articolo lo dedico ad un bambino pakistano, divenuto il simbolo della lotta al lavoro minorile. Il suo nome è Iqbal Masih, venduto dal padre ad un venditore di tappeti per un debito di soli 12 dollari e costretto a lavorare anche 12 ore, incatenato e denutrito, minato per sempre nel suo fisico. Riuscito a fuggire, partecipò ad una manifestazione per la liberazione dalla schiavitù del lavoro e da allora cominciò a viaggiare per far conoscere al mondo queste orribili situazioni.
All’età di 12 anni, nel 1995, fu assassinato in circostanze tutt’oggi non chiarite, ma grazie al suo impegno molte condizioni di schiavitù minorile sono venute alla luce portando alla chiusura molte fabbriche di tappeti in Pakistan. Fino a quando la povertà sarà una realtà del pianeta, tutto questo può ancora succedere. Anche in paesi insospettabili, considerati industrializzati, nelle sue realtà più arretrate, dove la ricchezza non è arrivata.
Quando sono i bambini a pagare personalmente le conseguenze dell’ingiustizia, ho idea che manchi ancora molto, troppo tempo per definirci una razza evoluta.
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