Recenti fatti hanno visto protagonisti: due ragazze, un video e il web. Nel primo caso un filmato con contenuto spinto diffuso nella rete da una terza persona, nel secondo fatto una ragazza filmata da ragazze di sua conoscenza, mentre, in stato di incoscienza, subiva uno stupro.
Anche in questo caso, un click e ciò che dovrebbe essere privato diventa pubblico e un reato che dovrebbe essere denunciato diventa un fenomeno da baraccone, con tanto di platea non pagante, ma di sicuro giudicante ed oltraggiosa.
Queste vicende mi hanno fatto pensare ai secoli or sono quando le persone ritenute colpevoli di atti sessuali riprovevoli quale veniva considerata la sodomia, venivano giustiziati con il fuoco da vivi.
Insomma quando le oscenità divenivano pubbliche bisognava in qualche modo punire i peccatori e visto che della giustizia divina non si può mai esser certi in maniera definitiva, allora meglio intanto garantire quella terrena.
Questo sempre perché la religione che guida i pensieri e le azioni, decide ciò che è giusto e quello che non lo è, e se qualcosa rientra nel secondo caso allora ogni mezzo è lecito per punire severamente o addirittura eliminare colui o colei che ha deciso di trasgredire la legge divina.
E questo concetto è trasversale per qualsiasi religione, dietro la cui diversa bandiera si commettono da secoli omicidi di massa, barbare torture, atti che di divino sembrerebbero avere ben poco, se non le scritture a cui si ispirano, il testamento che ogni dio lascia al suo popolo.
Quindi tenendo fede a quanto la religione ci insegna e che, nel bene e nel male, influenza il nostro agire quotidiano, se una persona commette un peccato e lo fa pubblicamente, in maniera del tutto automatica, coloro che guardano dall’esterno, sono prima testimoni e poi inevitabilmente giudici.
Come tali, liberi di decidere la sorte della persona in questione, che però persona non è più, ma si è trasformata in un caso, un mezzo, un’opportunità.
Lecito il fuoco sotto la carne viva, legittime le offese, le ingiurie, il pubblico ludibrio.
Quindi ripartendo dall’inizio, seguendo però la logica da me descritta, tutto ciò che è accaduto sembra conseguente ed in linea con quanto si verifica da secoli. Ovviamente cambiano i mezzi, la tecnologia velocizza i tempi della giustizia e si arriva molto più in fretta ad una condanna popolare.
Nella catena di questa giustizia virtuale che sembra avere tempi migliori di quella tradizionale, il pubblico non è però il solo soggetto.
Si parte dal protagonista della scena incriminata, che è una vittima pura solo nel caso in cui è inconsapevole o ingenua, altrimenti sarà lei o lui ad aver dato il via al macabro meccanismo.
Poi abbiamo colui o colei che registra il video che diventa il diffusore via etere, con un semplice click che non sfiora la sua coscienza, ma la viva attenzione dei milioni di voyeur che devono in qualche modo soddisfare la morbosa curiosità.
Ancora non è finita, perché prima di arrivare al pubblico che attende come belve la propria preda, ci sono tutti quelli che fanno diventare l’oggetto del crimine di pubblico dominio.
Coloro che realmente rendono celebre quel protagonista, quelli che attraverso le stampe di milioni di copie, fanno conoscere quel fatto. E a questo punto entra, o meglio, dovrebbe entrare in gioco l’essere un professionista.
Perché un giornalista con la lettera maiuscola, non pubblica di getto, non butta il colore sulla tavolozza prima di uno studio attento su quale sfumatura cromatica sia opportuno utilizzare e quale scartare.
Questo studio attento si chiama verifica della notizia e distingue un giornalista serio da un giornalaio, e direi che nel panorama italiano di certo chi ne esce a testa alta è quest’ultimo.
Ma la notizia verificata forse fa meno followers di quella gridata, buttata in pasto, e di certo è più costoso in termini di tempo e di energia, in quanto ci vuole un certo lavoro per arrivare alla verità, sempre che a qualcuno interessi davvero sapere cosa sia accaduto al/alla protagonista.
In effetti ci sarebbe meno gusto, perché per quanto possa essere rivoltante, il sensazionalismo paga, eccome che paga.
Alla fine di queste brutte storie, bisogna dire che non pagherà nessuno.
In Italia chi diffonde un video commette reato solo se il protagonista è minorenne, il pubblico assetato se la può cavare con qualche scusa, e gli apprendisti giornalisti passeranno alla prossima notizia da triturare alla velocità della luce.
Il meccanismo riprenderà vita, fino alla prossima preda da far cadere nella rete.
Spero solo che sia abbastanza forte da resistere.