domenica 18 settembre 2016

Ieri il rogo, oggi il video


Recenti fatti hanno visto protagonisti: due ragazze, un video e il web. Nel primo caso un filmato con contenuto spinto diffuso nella rete da una terza persona, nel secondo fatto una ragazza filmata da ragazze di sua conoscenza, mentre, in stato di incoscienza, subiva uno stupro. 

Anche in questo caso, un click e ciò che dovrebbe essere privato diventa pubblico e un reato che dovrebbe essere denunciato diventa un fenomeno da baraccone, con tanto di platea non pagante, ma di sicuro giudicante ed oltraggiosa.

Queste vicende mi hanno fatto pensare ai secoli or sono quando le persone ritenute colpevoli di atti sessuali riprovevoli quale veniva considerata la sodomia, venivano giustiziati con il fuoco da vivi. 

Insomma quando le oscenità divenivano pubbliche bisognava in qualche modo punire i peccatori e visto che della giustizia divina non si può mai esser certi in maniera definitiva, allora meglio intanto garantire quella terrena.

Questo sempre perché la religione che guida i pensieri e le azioni, decide ciò che è giusto e quello che non lo è, e se qualcosa rientra nel secondo caso allora ogni mezzo è lecito per punire severamente o addirittura eliminare colui o colei che ha deciso di trasgredire la legge divina.

E questo concetto è trasversale per qualsiasi religione, dietro la cui diversa bandiera si commettono da secoli omicidi di massa, barbare torture, atti che di divino sembrerebbero avere ben poco, se non le scritture a cui si ispirano, il testamento che ogni dio lascia al suo popolo.

Quindi tenendo fede a quanto la religione ci insegna e che, nel bene e nel male, influenza il nostro agire quotidiano, se una persona commette un peccato e lo fa pubblicamente, in maniera del tutto automatica, coloro che guardano dall’esterno, sono prima testimoni e poi inevitabilmente giudici. 

Come tali, liberi di decidere la sorte della persona in questione, che però persona non è più, ma si è trasformata in un caso, un mezzo, un’opportunità. 
Lecito il fuoco sotto la carne viva, legittime le offese, le ingiurie, il pubblico ludibrio.

Quindi ripartendo dall’inizio, seguendo però la logica da me descritta, tutto ciò che è accaduto sembra conseguente ed in linea con quanto si verifica da secoli. Ovviamente cambiano i mezzi, la tecnologia velocizza i tempi della giustizia e si arriva molto più in fretta ad una condanna popolare.

Nella catena di questa giustizia virtuale che sembra avere tempi migliori di quella tradizionale, il pubblico non è però il solo soggetto. 

Si parte dal protagonista della scena incriminata, che è una vittima pura solo nel caso in cui è inconsapevole o ingenua, altrimenti sarà lei o lui ad aver dato il via al macabro meccanismo. 

Poi abbiamo colui o colei che registra il video che diventa il diffusore via etere, con un semplice click che non sfiora la sua coscienza, ma la viva attenzione dei milioni di voyeur che devono in qualche modo soddisfare la morbosa curiosità.

Ancora non è finita, perché prima di arrivare al pubblico che attende come belve la propria preda, ci sono tutti quelli che fanno diventare l’oggetto del crimine di pubblico dominio. 

Coloro che realmente rendono celebre quel protagonista, quelli che attraverso le stampe di milioni di copie, fanno conoscere quel fatto. E a questo punto entra, o meglio, dovrebbe entrare in gioco l’essere un professionista. 

Perché un giornalista con la lettera maiuscola, non pubblica di getto, non butta il colore sulla tavolozza prima di uno studio attento su quale sfumatura cromatica sia opportuno utilizzare e quale scartare. 

Questo studio attento si chiama verifica della notizia e distingue un giornalista serio da un giornalaio, e direi che nel panorama italiano di certo chi ne esce a testa alta è quest’ultimo.

Ma la notizia verificata forse fa meno followers di quella gridata, buttata in pasto, e di certo è più costoso in termini di tempo e di energia, in quanto ci vuole un certo lavoro per arrivare alla verità, sempre che a qualcuno interessi davvero sapere cosa sia accaduto al/alla protagonista.

In effetti ci sarebbe meno gusto, perché per quanto possa essere rivoltante, il sensazionalismo paga, eccome che paga.
Alla fine di queste brutte storie, bisogna dire che non pagherà nessuno. 

In Italia chi diffonde un video commette reato solo se il protagonista è minorenne, il pubblico assetato se la può cavare con qualche scusa, e gli apprendisti giornalisti passeranno alla prossima notizia da triturare alla velocità della luce. 

Il meccanismo riprenderà vita, fino alla prossima preda da far cadere nella rete.

Spero solo che sia abbastanza forte da resistere.





domenica 11 settembre 2016

Cameriere? Una pizza, ma so già che non la mangerò


Una sera di questa tiepida estate, vado a mangiare una pizza e come al solito osservo sempre con attenzione ciò che mi circonda. 
Dopo poco che insieme al mio accompagnatore avevamo preso posto, al tavolo accanto al nostro si siede una famigliola composta da tre adulti e due bambini. 

Noi nel frattempo avevamo ordinato le nostre invitanti pizze che avremmo mangiato con gusto e più o meno contemporaneamente erano state servite le pietanze anche dei nostri vicini, inaspettati protagonisti di questo post.

Non è mia intenzione ammorbare con una telecronaca, piatto dopo piatto, perché non è tanto importante descrivere cosa è stato mangiato, quanto piuttosto soffermarsi sulle quantità di cibo rimandate indietro quasi intonse.

E per finire, come ciliegina su una torta non consumata, un’ordinazione lampo prima di andare a pagare il conto: una birra sorseggiata una sola volta, in fretta per saldare quanto non mangiato. 

Peccato però che il conto del danno ambientale non viene considerato e la famigliola può andare tranquillamente a fare danni da qualche altra parte, chissà per quanti anni ancora considerando la giovane età dei bambini che ne facevano parte.

Se solo si considerasse quanta materia ed energia è necessaria per produrre il cibo a nostra disposizione, il quale non nasce direttamente nei campi ma per arrivare servito nel piatto segue un percorso di lavorazioni e raffinazioni. 

Questo vuol dire che quando lo ritroviamo bello e confezionato sotto il naso, ha prodotto un impatto sull’ambiente più o meno significativo, a causa dell’utilizzo di acqua, emissioni di gas ad effetto serra delle varie industrie coinvolte, inquinante anche solo per il suo trasporto su strada. 

Non possiamo permetterci di vivere a nostro piacimento, noncuranti dei riflessi delle nostre azioni. 
Ed è nostro dovere insegnarlo anche alle generazioni future, perché sono loro che pagano il prezzo più alto dell’indifferenza odierna sulla questione ambientale.

L’impatto sull’ecosistema di quella famiglia è stato molto alto e moltiplicarlo per tutti coloro che sprecano cibo con tale leggerezza, significa un danno di non poco conto. 

Ho però dimenticato di dire che la famigliola è andata via su un fuoristrada fiammante ed ingombrante, il che ha fatto salire drammaticamente il conto dell’impatto ambientale.

Alla fine questi danni non li pagherà nessuno, o meglio li paghiamo tutti: andando incontro ad una sempre più concreta scarsità di risorse, dovuta al progressivo incremento demografico, respirando un’aria di qualità peggiore, il che comporta problemi di salute anche gravi, imprevedibili futuri scenari dovuti ai cambiamenti climatici. 

Se qualcuno in questo momento sta pensando che si tratta del solito allarmismo ingiustificato, rispondo che questa, in genere, è la scusa che usano quelli che vogliono continuare a fregarsene, per non dover attuare cambiamenti sul proprio stile di vita. Più comodo ovvio.

Io invece voglio fare una previsione, secondo me tutti quelli che oggi fingono per non agire, un giorno saranno gli emarginati della società, coloro che verrano visti come gli untori ai tempi della peste. 

Quelli che dovranno rimanere sulla Terra in caso di imminente disastro, perché sull’astronave per gli umani da salvare, ci sarà posto solo per scienziati seri e persone in grado di garantire generazioni evolute. 

A chi, leggendo queste righe deciderà di ignorarne il contenuto, etichettandole come il frutto di una fervida fantasia o un noioso richiamo all’ordine di una blogger senza fama, voglio ricordare una massima di Karl Marx:

“Non è la coscienza degli uomini che determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza”.

Alla fine, per forza di cose, si sarà costretti a cambiare, ma a quel punto lo scenario non sarà più lo stesso. 

E potrebbe essere più simile all’inferno.


domenica 4 settembre 2016

Un anello di plastica è per sempre


Se pensassi che il diamante può suggellare l’amore che dura fino alla fine dei giorni, allora sarei davvero combattuta. Per il fatidico anello credo che alla fine opterei per un materiale inusuale per l’occasione, poco elegante, ma perfetto rispetto al messaggio che deve ribadirmi giorno dopo giorno: la plastica, perché no, un innovativo quanto originale anello in plastica.

Sarei certa che starebbe lì, eterna, immutabile, a ricordarmi l’amore che non si consuma mai. O come la definiscono gli scienziati: pervasiva, perché si infiltra ovunque, anche nei meandri più nascosti e lì ci rimane, per sempre. Appunto come l’amore tra persone, almeno nelle comuni aspirazioni.

Anche quando non rimarrà abbastanza petrolio da utilizzare, ne avremo sparsa a sufficienza per il mondo da non farci dimenticare che specie inquinante siamo. E l’amore eterno diventerebbe l’orrore eterno.

Anche se la maggior parte finita sul fondo dell’oceano rimarrà lì per molti, molti anni ad intossicare gli animali; quelli che sopravvivono la ingeriscono, rimandandola al mittente, attraverso la catena alimentare.

Non è tanto la plastica di grosse dimensioni a preoccupare, quanto le microplastiche, piccoli rifiuti che finiscono negli angoli più nascosti del globo, nelle fosse oceaniche ancora tutte da scoprire. 

Si stima che questo materiale costituisca il 50-80% dei rifiuti che inquinano l’oceano, ma sono dati approssimativi in quanto in fase di studio e lo sono anche i metodi analizzati per rimediare ai danni. 

È importante investire nella ricerca che soltanto negli ultimi anni ha subito un’accelerazione in quest’ambito, fondamentale anche solo per stabilire quanto questo derivato abbia inquinato, la mappatura globale di un consumo sfrenato.

Ma da dove viene tutta questa spazzatura? Dai rifiuti lasciati in spiaggia, degradati dal sole e dall’acqua di mare diventeranno particelle piccolissime, il resto è noto. 

L’articolo di Nature mi ha poi illuminato su altre insospettabili fonti. I frammenti di pneumatici che dall’asfalto finiscono nelle fognature e poi nell’oceano, medesima via percorsa dalle microsfere aggiunte ai prodotti cosmetici e, dulcis in fundo, i rifiuti che volano via dalle discariche mal gestite, trasportati dal vento verso altri lidi.

Di certo noi possiamo fare molto per contenere questo sfacelo. Prima che, come al solito, la scienza salvi noi e i poveri animali marini dal soffocare in questo mare di petrolio in forma solida, possiamo e dobbiamo agire. Ridurre la quantità di rifiuti generati, smaltirli adeguatamente e farli rinascere sotto forma di altri prodotti. 

Diminuire i consumi alimentari, preferendo il pesce allevato a quello pescato, ed in generale di tutto ciò che si trova all’interno di recipienti. In questo modo diminuisce il numero di contenitori e per quelli che gettiamo via, il vivere civilmente vorrebbe che venissero smaltiti adeguatamente, la spiaggia non rientra tra i luoghi ideali.

Il presidente Obama ha dato vita all’oasi marina protetta più grande al mondo, quadruplicando la superficie del parco marino già creato nel 2006. Si trova alle Hawaii ed è un paradiso in Terra, ma neanche quel luogo incantevole si è salvato dalla mano devastatrice dell’uomo. 

Nel 2014 è stata rimossa dall’area protetta una rete da pesca dal peso di quasi 12 tonnellate, e l’articolo ci ricorda come le reti e l’attrezzatura da pesca sia una pesante fonte di inquinamento marino.

Si dice che gli spiriti degli antenati indigeni aleggino ancora su quelle acque cristalline. 

Chissà che, prima o poi, non riusciremo a far scappare anche loro.

La battaglia per controllare la plastica

L'oasi marina più grande del mondo