martedì 29 marzo 2016

L'idea è frustrante, neanche fossi un Minion


Lo devo ammettere senza giri di parole: non sono pronta a vivere in un mondo senza banane. Hanno caratterizzato la mia esistenza da quando le ho scoperte molti anni fa e quella delle popolazioni della Terra da settemila anni o più. La loro origine si perde tanto lontano nel tempo, nel Sud Est asiatico, con sembianze e gusto completamente diversi.

Rappresentano un frutto di eccezionali qualità nutritive, ottimo come sostituto di un pasto, tanto che per molti umani costituisce parte fondamentale del loro nutrimento giornaliero.
Un fungo parassita ne sta seriamente minacciando l’esistenza e quando si espanderà sino al Centro e Sud America dove si concentra la maggior parte della produzione mondiale, allora inizieremo ad accorgercene anche noi in Occidente.

Come già accennato, la banana, inteso come frutto selvatico, aveva, in origine, un aspetto dissimile da quello che tutti conosciamo. 
Il loro interno, ricco di semi, non le avrebbe rese il frutto famoso che è oggi ma, al contrario, ha spinto l’uomo a selezionare in laboratorio una specie con caratteristiche completamente differenti. 

Polpa morbida e priva di semi, forma  allungata e corpo robusto, gusto dolce, è tutto ciò che il mercato mondiale richiede e quindi, dalla pianta madre si continuano ad effettuare trapianti che creano eserciti di cloni. 
L’assenza di semi rende queste piante molto allettanti, ma incapaci di riprodursi in maniera autonoma, destinate alla morte in assenza di replicazione da parte dell’uomo.

Piante geneticamente identiche che sfuggono alle leggi casuali della natura, in grado di soddisfare una domanda particolarmente esigente. Di certo un bel frutto, ma non abbastanza forte. 
Di sicuro non resistente di fronte agli aggressivi attacchi di funghi parassiti che sono riusciti a distruggere la prima generazione di banane-cloni: le Gros Michel o Big Mike, le quali dicono essere diverse da quelle che conosciamo oggi. 

La malattia di Panama le soppiantò quasi completamente, forse ne esiste ancora qualche piantagione in giro per il mondo, e fece nascere una nuova generazione di cloni: le Cavendish, quelle che conosciamo attualmente, più forti delle Big Mike, ma non abbastanza. 

La storia purtroppo si ripete ed un altro fungo le sta seriamente minacciando. La necessità di coltivare piante tutte uguali, dovuta sia alla loro sterilità che alle esigenze del mercato mondiale, produce esemplari deboli, incapaci di prevalere su funghi che evolvono continuamente. 
Io sono disposta a vederne modificata l’apparenza, pur di non vederla sparire per sempre. 

Gustoso snack o oggetto di maliziose battute, è costantemente presente nelle nostre vite. Ma per quei popoli che se ne cibano quotidianamente rappresenta qualcosa di ancor più vitale. In India e Nepal ne fanno addirittura dono alla divinità per sostenere la vita sul pianeta o come auspicio di accoglimento dei desideri dei credenti. 


domenica 20 marzo 2016

Non è mai una goccia nel mare


Quando ci si sofferma a riflettere e a scrivere sulla parte oscura della natura umana, si è costretti, proprio malgrado, a dover ammettere ignobili vizi e disonorevoli inganni. Anche questo è l’uomo, ma non ci fa piacere constatarlo, così tanto di frequente.

Però poi, quando meno te l’aspetti, capita che qualcuno ti ricordi che l’uomo è anche altro. E ti rendi conto che avevi davvero bisogno che quel qualcuno interrompesse il circolo vizioso del pensiero che vuole l’uomo come una serie di proprietà negative che pur rimescolate portano sempre al medesimo risultato. 

Nicolò Govoni, questo è il suo nome, si presenta a me un giorno raccontando in breve la sua storia e parlando di un libro scritto da lui, con il quale raccoglie fondi per aiutare i ragazzi di un orfanotrofio.
Per i motivi descritti sopra, la diffidenza non mi permette di abbandonarmi immediatamente alla contentezza per aver trovato un esempio di genuina dedizione al prossimo, d’altronde la rete pullula di gente che si traveste. 

Ed invece, verifico con estrema gioia che la storia di questo ragazzo non solo è veritiera, ma merita di sicuro che venga raccontata, seppur in breve.
Nicolò ha 22 anni e da tre anni è volontario a Dayavu Home, un piccolo orfanotrofio in India. 

"Uno" è il libro che ha scritto per raccontare sia la sua storia personale che quella dei bambini che vivono in quest’orfanotrofio. 
Da un estratto del profilo su Facebook : In conclusione, quella che avete davanti è la storia di un grande viaggio. Ma non solo un viaggio intrapreso, gridando, sul tetto di un treno diretto al Taj Mahal, bensì un viaggio a fondo nel petto dei personaggi, indagando le problematiche individuali e sociali dell’India moderna, dalla condizione femminile all'alcolismo, dall’industrializzazione ai matrimoni combinati.
‘Uno’ è un intreccio di amore, morte e fede, solitudine, inadeguatezza e felicità, abbandono, perdita, nostalgia e speranza, nella spasmodica ricerca che accomuna tanto un ragazzo di vent'anni quanto un uomo di cinquanta: la ricerca dell'identità.
Vivere questa storia ha cambiato la mia vita per sempre. Spero che leggerla possa rendervi felici.

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I proventi delle vendite del libro saranno totalmente devoluti in beneficenza ai protagonisti del romanzo, i bambini dell’orfanotrofio Dayavu Boy’s Home.

Io mi limito ad acquistare il libro e per pochi euro so di sostenere una causa importante che un ragazzo di 22 anni porta avanti in prima persona.
Anche se una buona azione può sembrare che non cambi niente se confrontata con quanto sarebbe necessario nel mondo intero, in realtà non è mai così. 

Basti pensare al fatto che nel corso della storia alcune persone, sono state in grado, da sole, di portare cambiamento ed evoluzione. Ed in fondo non sapremo mai quale sarebbe stato il mondo senza di loro o privato di quelle solitarie, preziose gocce nel mare.  

Io sono felice di averne vista cadere una ed auguro a Nicolò di continuare tenacemente questo viaggio straordinario.


domenica 13 marzo 2016

L'essere disumano


Quotidiane notizie di efferati omicidi, interminabili torture e crimini caratterizzati da una ingiustificata crudeltà ci pongono interrogativi sulla natura umana dell’essere. Un mammifero dotato di uno sviluppo straordinario del cervello, delle facoltà psichiche e dell’intelligenza nonché di un linguaggio simbolico articolato, questo è l’uomo in base alla definizione che ne dà il dizionario. 

Ma non è ciò che pensiamo quando leggiamo di una quindicenne stuprata e bruciata viva in India o di un ragazzo ucciso lentamente per il solo piacere di provocarne la morte con sofferenza. E questi sono solo fatti accaduti in questi giorni, ma la storia trabocca di atti pregni di malvagità che fanno dubitare non poco dello sviluppo straordinario del cervello che dovrebbe distinguerci da altre specie. 

Il fatto che chi li compie sia anche in grado di trascinare folle oceaniche verso i propri folli principi fa sorgere ancora più interrogativi sulle facoltà psichiche e l’intelligenza di cui dovrebbe essere dotato un uomo. 

Forse è il caso di cominciare a domandarsi cosa c’è di sbagliato nella società messa in piedi dalla nostra specie, cosa rende insignificante il valore di una vita umana. Perché provocare sofferenza diventa un piacere, uno sfogo o, peggio, la premeditazione di un’intera esistenza. 

Quando accadono questi terribili avvenimenti, una comunità nel suo intero deve cominciare a riflettere. Dove è l’errore, dove l’anomalia da riparare, l’essere davanti allo specchio se lo chiede e spera di non dover mai fare i conti con la sua disumanità. 

Cosa sono io?
Ero convinto di essere un uomo, 
sentivo di essere invincibile, 
credevo fermamente in ciò che facevo.
Questa notte ho cominciato a sentire le urla,
interminabili, strazianti, di chi credevo di aver eliminato per sempre.
Ed ora ho un solo desiderio, 
che non tornino più nella mia mente,
che non si sommino ad altre urla,
che non debba iniziare anche io a provare dolore.
Se tutto il male dovesse tornare al mittente,
non potrei sopportarlo, scomparirei anch’io.
Se morissi, non vorrei rinascere uomo,
vorrei diventare un oggetto che si può riparare,
perché oggi so che qualcosa non ha funzionato.
Anche se non provo niente,
anche se le urla mi infastidiscono, ma non mi commuovono,
credo che avrei dovuto diventare un’altra cosa.
Magari un pezzo di metallo, un insieme di circuiti,
un programma che se non funziona si aggiusta.
Un robot senza cuore è sempre meglio di un uomo creato per amare,
io non so cosa voglia dire provare amore,
mi hanno detto che sarebbe giusto così,
io però non lo sento nel profondo,
quindi il mio danno è grave, irreparabile.
Se dovessi rinascere metallo parlante,
datemi un cuore, fatemi provare pietà,
dotatemi di compassione,
concedetemi la sublime virtù che ci rende unici,
così che neanche il sapore del metallo potrà nascondere,
quello inconfondibile ed intenso dell’essere umano.


domenica 6 marzo 2016

Un oceano di plastica... di baci


Quando ero piccola e già in grado di scrivere frasi di senso compiuto, l’avvento dell’estate era motivo di gioia anche per il fatto che potevo iniziare a sperimentare la nuova capacità acquisita. Scrivere cartoline mi faceva sentire più grande e adoravo inventarmi frasi accattivanti per divertire il lontano destinatario, ed ancor di più immaginarne la reazione. 
Ma la cosa sulla quale i miei neuroni si dilettavano grandemente era il momento dei saluti; inventare ogni volta una frase diversa non era affatto facile vista l’ancor esigua conoscenza di vocaboli. 

Il termine che tra tutti preferivo era “oceano” perché evocava immagini di enormi distese d’acqua cristallina e accostarlo alla parola bacio mi suonava come una manifestazione d’affetto che non avrebbe lasciato indifferenti i destinatari. 
Se volessi usare oggi “un oceano di baci” su una cartolina spedita proprio da un’incantevole località marina, dovrei scrivere “un oceano di plastica di baci”.

Intere isole di plastica galleggiano negli oceani e sono diventate tali a causa delle correnti marine che hanno unito i vari pezzi tra di loro. Ne sono stati stimati circa 236000 tonnellate e la cosa più grave è che la maggior parte di essi sono molto piccoli, la giusta grandezza per essere ingeriti dalla fauna acquatica e finire nella catena alimentare. Beh se qualcuno pensava che il nostro stile di vita non ci tornasse indietro come un boomerang, si sbagliava di grosso. Il prezzo da pagare è alto e se oggi non ci sembra così è solo perché la natura ha tempi di metabolizzazione lunghi e, a differenza nostra, ci dà il tempo di correggere il tiro. 

Ma non sarà una possibilità aperta per sempre, prima o poi dovremo pagare il conto e potrebbe essere molto salato. 
Mi aveva confortato un articolo che ho letto recentemente in cui veniva descritto lo studio di un team di ricercatori che stanno cercando di comprendere le modalità secondo cui alcune larve siano in grado di degradare certi tipi di plastica, il polistirene in particolare. Anche perché la plastica non è tutta uguale, ma una volta identificati i polimeri in grado di essere metabolizzati, si potrebbe spingere la produzione mondiale verso quella tipologia.

Prima che, ancora una volta, sia la scienza a salvarci, dovremmo cercare di mettere in atto comportamenti virtuosi.  In primo luogo, non dovremmo gettare rifiuti in giro, il passo dalla terra ferma all’acqua può essere veramente breve, ma dirottarli verso la loro trasformazione in altri oggetti. Se riciclarli nella loro interezza non è possibile, farlo in una buona percentuale è un ottimo risultato. 

Ed infine, anche se a mio avviso è la cosa più fruttuosa per noi e per l’ambiente, diventare consumatori morigerati. Mangiare poco, comprare in giusta misura, non eccedere e, visto che di plastica parliamo, bere acqua del rubinetto può essere un’ottima abitudine. Quanta plastica si disperde con una sola bottiglia? Pensate per il consumo in un’intera famiglia, e se non piace il sapore liscio magari mescolarla con quella frizzante; io faccio così e la riduzione dei rifiuti è considerevole. 

Non ci farà piacere sapere che il Mediterraneo ha la maggior concentrazione di microplastica. Forse ce ne dovremmo ricordare la prossima volta che ci troveremo a villeggiare in una località marina nostrana, soprattutto al momento in cui lasciamo la spiaggia. 

Sarebbe il caso di ricordarsi di raccogliere i rifiuti prodotti, più che altro perché i bambini di oggi non saranno adulti così fortunati da poter ammirare tali bellezze, a causa delle nostre negligenze. 
E noi teniamo al loro futuro, vero?