domenica 17 dicembre 2017

Fate di me ciò che io voglio


In un clima di euforia mista a commozione è stato accolto il testo di legge sul biotestamento che con decenni di ritardo regola il fine vita ossia quel lasso di tempo che separa un individuo dal termine della sua esistenza. Quando invece di essere bruscamente sollevato dal dubbio se continuare a vivere o meno grazie ad una morte improvvisa, la sua presenza su questa Terra viene prolungata fino a data da destinarsi attraverso il supporto di cure mediche. 

Insomma il fatto di essere sopravvissuto ad un incidente, ad una malattia invalidante o a qualsiasi altro grave accadimento sulla salute fisica peserà come un macigno sulla vita futura di questo essere. Il quale a volte o anche spesso può decidere che in quelle condizioni non vuole continuare a vivere e chiede il benestare della società che lo circonda, della comunità della quale fino a quel momento è stato un individuo attivo e magari anche prezioso. 

Sempre che le sue capacità mentali glielo permettano, sia in grado di intendere o di volere, altrimenti sarà un’altra persona a lui vicina a dover decidere cosa è giusto. Cosa tra l’altro già difficile in condizioni di maggior leggerezza, ancor più quando c’è da scegliere se qualcuno che non siamo noi debba annullare la sua presenza che in quel caso sarebbe solo fisica. 

In realtà quanto è stato legiferato riguarda il consenso o il rifiuto in merito a determinati trattamenti sanitari tra cui la nutrizione o idratazione artificiale il che equivale certamente ad andare incontro alla fine. Della buona morte, l’eutanasia che tanta divisione nel dibattito politico e pubblico ha creato, non si è parlato in maniera specifica. 

Il procurare intenzionalmente la morte ad una persona la cui qualità di vita è seriamente compromessa da una malattia o condizione psichica è un atto evidentemente troppo audace e prematuro in un paese che ci ha messo decenni per arrivare anche solo a parlare di scelta individuale sulle cure mediche. 

Influenze politiche e religiose non hanno permesso un libero dibattimento sul tema del fine vita, tanto che al momento in cui si sono verificati fatti privati che sono diventati pubblici come quello di Eluana Englaro o Piergiorgio Welby argomenti che prima erano dei tabù sono stati necessariamente sviscerati per cercare di capire quale fosse la decisione migliore. Che probabilmente non è scritta da nessuna parte, perché siamo tutti individui diversi con capacità di reagire alle situazioni del tutto differenti, potenzialità disuguali, ma non solo. 

Non tutti abbiamo una fede, ci sono individui che non hanno un credo religioso, quindi per loro non c’è un dio che ha donato loro la vita. Conseguentemente possono scegliere di non soffrire ulteriormente e tornare ad essere parte della terra senza dover subire alcuna punizione. Chi ha ragione? Tutti, sia il credente che l’ateo, ad ognuno la conclusione che reputa più idonea per la sua permanenza tra noi vivi. Sempre che questa possibilità di decidere gli o le venga concessa.

E come la mettiamo quando la capacità di intendere della persona è intatta e quindi si tratta di un individuo che potenzialmente potrebbe ancora dare molto alla comunità? Magari il loro grado di sofferenza è tale per cui non sono capaci di uscire fuori dalla terribile condizione di menomazione fisica in cui la malattia o l’evento traumatico li ha condotti, nonostante le cure psicologiche.

Anche in questo caso credo che nessun altro possa arrogarsi il diritto di decidere che quella persona debba continuare a vivere in quello stato di estrema sofferenza, è la nostra natura umana che ce lo vieta. 

Il mio pensiero va al grandissimo scienziato Stephen Hawking, il quale nonostante la malattia degenerativa neuronale che lo ha colpito in giovane età, ha enunciato teorie, insegnato modelli matematici e studiato moltissimo sui buchi neri, un’eredità preziosissima che lascia ad altri scienziati. 

Non ancora però, perché nonostante le gravi menomazioni fisiche che lo costringono su una sedia a rotelle ultrasofisticata sulla quale comunica attraverso un computer, continua ad essere un membro indispensabile alla comunità internazionale, riuscendo anche ad ironizzare sulla sua condizione. 

Sono seriamente onorata come appartante a questa comunità che non abbia mai pensato di interrompere la sua esistenza, ne avrebbe avuto motivo. Saremmo veramente diventati tutti più poveri. 

Capisco anche che un cervello come il suo è quasi fuori la norma, però lui ci riporta con i piedi per terra e ci ricorda una grande verità, forse se ci riflettiamo un po’ arriviamo alla conclusione che ci sono molti vivi e vegeti che hanno deciso di morire da tempo con il loro immobilismo culturale, di azione, di pensiero, in poche parole hanno scelto di non essere, ma solo di esistere.

« Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi... Per quanto difficile possa essere la vita, c'è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire. » Stephen Hawking

domenica 10 dicembre 2017

Più libri, più liberi, più ricchi


La mia prima fiera del libro come autrice, dopo l’uscita di Quando le foglie scadono e l’esperienza è stata travolgente esattamente come la folla che invadeva La Nuvola. Il nuovo palazzo dei congressi di Roma architettato dalla star delle moderne costruzioni Massimiliano Fuksas ha aperto i suoi enormi ingressi ad una moltitudine di persone curiose disposte lungo una chilometrica fila. 

Per la prima volta non ero una semplice spettatrice alla ricerca di un titolo accattivante o di un classico da regalare a chi non ha voglia di sperimentare un nuovo autore, questa volta c’era anche la mia opera. Desiderosa di essere giudicata, criticata, messa alla prova da chi non ha la minima idea di chi tu sia. 

Ho incontrato molti altri autori, esordienti e veterani, che non attendevano altro che qualcuno si fermasse allo stand e desse anche un’occhiata furtiva al loro libro, per poter poi convincerli ad acquistare il prodotto. Perché alla fine un libro si riduce a questo e quanto ci può essere di affascinante ed emozionante nella sua stesura, si perde nelle strategie di marketing e nei conti dei numeri di copie vendute. 

In realtà l’autore ha sempre delle aspirazioni che spera di realizzare quando decide di scrivere una storia, diventare famoso può essere la più banale. Tutti gli scrittori che ho incontrato ne avevano almeno una, la voglia di dichiarare un proprio punto di vista su un determinato argomento, quella di affermare sé stessi, o semplicemente esprimere un’innata passione con tutti i vantaggi che comporta sulla salute psicofisica. 

Di certo la volontà comune è quella di riuscire a divulgare il più possibile il frutto di un lavoro magari di anni, la speranza è che il pubblico lo apprezzi. Se dietro questo bisogno di riscontro del pubblico, ci sia un inconfessato narcisismo è un dubbio lecito. 

Gli artisti mostrano sempre un qualcosa di sé stessi e si aspettano un giudizio positivo da parte della collettività che li giudica. In ogni caso nulla di più utile in una società in cui vi è così necessità di evolvere verso altri gradi di civiltà. 

Quella italiana in particolare ha bisogno che la cultura prenda il sopravvento rispetto ad uno stallo che ci fa stazionare nel limbo della barbarie intellettuale dal quale nessuno dimostra di  voler uscire. I numeri parlano chiaro, nel nostro paese si legge pochissimo e sembra che anche i pochi imperterriti rischiamo di perderli, relegati nella loro roccaforte di fede intellettuale in cui ancora si crede che la lettura abbia un fondamentale valore per la crescita della società. 

Se a qualche politico interessa saperlo, la crescita sarebbe anche economica, tanto per avere una motivazione a mandare ogni tanto uno spot istituzionale su quanto faccia bene leggere. Certo se il livello della politica raggiunge un grado di preparazione accettabile, allora il messaggio risulta certamente più credibile. E magari un giorno gli emarginati potrebbero essere quelli che oggi dedicano il tempo della lettura all’utilizzo di dispositivi informatici, anche se, è bene chiarirlo, l’uno non esclude l’altro. 

Infatti ci si dedica molto alla lettura in paesi come il Canada o in Norvegia dove la rivoluzione digitale è arrivata molto prima che dalle nostre parti, semplice volontà di non rimanere all’età della pietra o della ruota. 

A questo punto esaurite emozione e soddisfazione per il traguardo raggiunto, mentre osservo la copertina del libro nel mare magnum delle altre copertine, mi dò appuntamento con gli altri autori alla grande prova di Torino, un salone che non ho mai frequentato e dove c’è tutta l’editoria che conta. 

Spero di vedere altrettanta folla come quella che ha visitato la novità architettonica romana, realmente interessata ad immergersi nella generosa ed inebriante offerta editoriale piccola e grande. 
O forse erano tutti i lettori d’Italia messi insieme?

Nel dubbio non resta che augurare a tutti noi, autori artisti sognatori, che proviamo a scalfire con forza quest’immobilità culturale nella quale siamo impantanati, di riuscire a smuovere un granellino per uno. 

Può darsi che per la fine del secolo ce la faremo a risalire la china. 
Sempre che nel frattempo non siamo stati surclassati da tutti gli altri, ma proprio tutti.